La Cappella Sistina, costruita per volere dal Papa Sisto IV Della Rovere su un fianco del colle Vaticano, utilizzava parte delle fondamenta di una demolita cappella medievale, detta Cappella Magna. Malauguratamente le vecchie fondamenta risultarono inadeguate a sostenere il grande peso del nuovo edificio -i muri sono spessi tre metri- per cui il cedimento delle fondazioni e la instabilità del terreno, produssero ben presto delle preoccupanti lesioni nelle pareti e nella volta della cappella, che in quel tempo era ancora decorata con un semplice cielo stellato dipinto da Pier Matteo d'Amelia.
Dopo vari segnali allarmanti e dopo il crollo della parete e dell'architrave del portone d'ingresso, che la notte di Natale del 1522 rovinò sul corteo papale uccidendo una guardia che era accanto al papa Adriano VI, furono fatti i necessari lavori di riparazione che consistettero nella messa in opera di 12 "catene" al disopra della volta e nella zona delle fondamenta.
Nel 1504, quando sembrava che la cappella si fosse stabilizzata, il Papa Giulio II fece abbattere il cielo stellato della volta e convinse -o obbligò- Michelangelo a dipingere l'opera che conosciamo, la quale fu eseguita dal 1508 al 1512.
Ma il problema statico non era stato risolto, per cui anche dopo il lavoro di Michelangelo i muri e la pesante volta della Cappella continuarono a lesionarsi seriamente. Ma la volta, che è a sesto ribassato, non era di mattoni, ma era stata costruita con il sistema romano della volta a sacco, ovvero mediante la gettata di un impasto di calce e pozzolana e blocchi di tufo su una controforma di legno provvisoria, per cui la sua compattezza ed il suo spessore -80 centimetri al cervello- ne impedirono il crollo.
A causa del progredire dei danni, intorno al 1564 e sino al 1569 gli architetti Pirro Ligorio e Vignola costruirono tre robustissimi contrafforti addossati alla Cappella, che finalmente restituirono stabilità all'assetto statico della Cappella.
Poiché le lesioni della volta avevano danneggiato anche gli affreschi di Michelangelo, fu affidato l'incarico di restaurarli al pittore Domenico Carnevali, il quale rifece in affresco due figure che erano andate perdute nella scena del sacrificio di Noè, una piccola parte della mano di Adamo nella scena della creazione dell'uomo, la mano di Dio padre nella scena della separazione della terra dalle acque , una parte della nuca del Profeta Geremia e la figura del giovane che gli è alle spalle, nonché due figure della vela raffigurante la "Punizione di Amàn", ed altre parti minori.
Ma i danni più vistosi, e che si protrassero più a lungo nel tempo, erano dovuti alle infiltrazioni di acqua piovana provenienti dal tetto e alla enorme quantità di fumo di candele, torce e bracieri che saliva continuamente verso la volta e lungo le pareti della Cappella. A questo proposito conviene ricordare quanto scriveva Wolfgang Goethe il 16 febbraio 1787 nel suo celebre "Viaggio in Italia": …il due febbraio siamo andati nella cappella Sistina, per assistere alla cerimonia della benedizione dei ceri. Ma non era cosa per me, e me ne sono andato via ben presto con gli amici. Penso infatti: ecco qua precisamente i ceri, che da tre secoli anneriscono questi affreschi stupendi, ed ecco l'incenso che, con tanta sfrontatezza, non solo avvolge di vapori il sole unico dell'arte, ma di anno in anno lo offusca sempre più e finirà con l'immergerlo nella tenebra.".
Qui Goethe mostra di rendersi perfettamente conto del vero problema di questi affreschi, che si annerivano per cause non dipendenti dalla volontà di Michelangelo, contraddicendo quello che era il comune sentire di quel tempo, secondo cui l.phpetto di questa pittura, scura, quasi priva di cromia, creduta originale, bene interpretava il mito michelangiolesco dell'uomo tormentato, preda della melanconia nera: mito che è stato esaltato in tutto il periodo romantico, a cui molte persone sono ancora oggi legate, nonostante che già nel 1936 Biagio Biagetti, allora direttore del Laboratorio Restauro pitture dei Musei Vaticani, in occasione di una campagna di consolidamento degli intonaci scrivesse: "Se e quando potrò trattarne, non mi sarà difficile dimostrare che l'intonazione policroma della Sistina, noi la vediamo come attraverso un vetro affumicato".
La formazione delle grandi efflorescenze saline bianche avveniva specialmente nella zona delle lunette e sulle reni della volta dove vi sono i pennacchi con profeti e sibille. Questi danni continui e frequenti richiesero i molti restauri con i quali cercavano di nascondere o mascherare le fastidiose macchie bianche.
L'operazione avveniva stendendo sugli affreschi varie mani di colla animale molto diluita, mantenuta liquida a caldo -o a freddo con l'aggiunta di una alta percentuale di aceto- a cui veniva aggiunta una piccola percentuale di olio. Più tardi sono state date stesure di gomma arabica sciolta in acqua che venivano usate anche come ravvivante dei colori.
Con l'affievolirsi dei colori e del modellato e con la continua formazione di efflorescenze saline, diventava necessario per i restauratori ridipingere le ombre nere dei panneggi e le ombre portate alle spalle delle figure. Da qui la progressiva perdita della memoria dei colori originali e l'acquisizione da parte degli affreschi di quella pelle bruno-nerastra, piena di macchie, che ancora si vede nelle vecchie fotografie.
Anche il Giudizio Universale aveva subito molti danni: alcuni causati dalle scale usate per montare il baldacchino sopra l'altare, ed altri dal fumo grasso delle candele e dalla polvere che avevano fatto diventare i colori tanto scuri da fare scomparire quasi del tutto la vivace cromia. Proprio a causa del forte accumulo di fuliggine, il Giudizio era stato oggetto di molti antichi tentativi di pulitura che, regolarmente non coronati da successo, si concludevano con una immancabile "sporcatura" artificiale della porzione pulita.
Il Giudizio Universale, inaugurato il 31 ottobre 1542, creò subito nei contemporanei sentimenti contrastanti. Esso fu persino definito "dipinto dalle mille eresie", e per questo inserito dal Concilio di Trento -terminato nel 1564- tra le 33 pitture che dovevano essere immediatamente "corrette". Appena morto Michelangelo, il 18 febbraio dello stesso 1564, Daniele da Volterra fu incaricato di dipingere dei drappeggi per coprire alcune parti di quelle figure considerate oscene. Alla morte di Daniele l'operazione fu continuata da Girolamo da Fano e poi dal Carnevali.
L'accanimento censorio fu ripreso anche nel settecento e nell'ottocento. In totale le figure coperte furono quarantadue. I drappeggi censori erano dipinti a tempera ad eccezione del gruppo formato da San Biagio e Santa Caterina che fu rifatto in affresco. La copia del Giudizio Finale dipinta da Venusti quattro anni più tardi, prima dell'intervento censorio, per il Cardinal Farnese -oggi a Napoli nel Museo di Capodimonte- ci mostra come apparivano le figure prima di essere censurate.
La pulitura degli affreschi della Cappella Sistina, ha permesso di riportare alla luce il vero colore del capolavoro di Michelangelo e nello stesso tempo ha costituito un momento eccezionale di studio di questa opera , che nel corso dei secoli aveva subito modifiche gravi della singolarissima cromia.
Il recupero degli imprevedibili colori originali ha avuto una risonanza vasta e immediata ed un impatto forte sulle coscienze degli studiosi e degli estimatori della pittura di Michelangelo, suscitando entusiasmi senza riserve ma anche alcune decise polemiche.
La riscoperta del colore rappresenta sicuramente la più evidente novità prodotta dalla pulitura degli affreschi della Cappella Sistina, tuttavia vi sono in queste pitture altri.phpetti meno vistosi, più riposti, che si propongono ad uno studio attento e meditato.
Come è noto, nel 1506 Michelangelo riceve da papa Giulio II l’incarico di progettare e scolpire una grande tomba da collocare al centro della Basilica di San Pietro in memoria del suo pontificato.
Per Michelangelo è questo il progetto più importante a cui si dedicherà per tutta la vita, ma ben presto diventerà per lui quella che Condivi definisce “ la tragedia della sepoltura” perché Giulio II poco più tardi, per ragioni economiche e di prudenza politica, raffredderà il suo entusiasmo e frenerà decisamente lo sviluppo del progetto, suscitando nell’artista toscano forte delusione e una violenta reazione.
Per questa ragione, quando lo stesso Giulio II fece pressioni affinché Michelangelo affrescasse la volta della Cappella Sistina, ricevette da questi un fiero rifiuto giustificato, col fatto di non essere un pittore. Alla fine, però, Michelangelo cedette, e dopo alcune esitazioni iniziali riguardanti la forma della composizione, nel 1508 iniziò il lavoro che concluse nel 1512.
Michelangelo dice di se stesso di non essere pittore, ma da ragazzo era stato ad imparare l’arte a Firenze nella famosa bottega del Ghirlandaio, grande affreschista, per cui, in Sistina, dopo un breve periodo di rodaggio, mette in atto una tecnica di rara perfezione.
Lasciati gli scalpelli e il mazzuolo ed impugnati i pennelli, egli si esprime in pittura con il linguaggio proprio di quest’arte che è fatto di forma e colore, ma aggiunge alla sua espressività anche una struttura materica quasi impercettibile, funzionale all’immagine, ottenuta attraverso una gran varietà di pennellate e di stesure di colore. Possiamo infatti vedere come la sua mano passi dalle pennellate ampie e liquide, quasi gestuali, di quel nastro verde librato nello spazio nella scena della creazione di Adamo, o dalla leggerezza dei capelli e della barba di Dio Padre della stessa scena, sino a quel fitto intreccio di pennellate sottili e nette, dai colori puliti che creano, come nel volto di Adamo, una superficie leggermente scabra simile ad un marmo scolpito con la gradina come il busto di Bruto del Bargello.
Questa tecnica contrasta con quella adottata per il volto della sibilla Eritrea le cui pennellate fitte e fuse imitano la superficie polita dei marmi lucidati a cera, come nel volto della Vergine della Pietà di San Pietro.
L’accostamento, e forse anche il parallelo, tra le superfici dipinte e quelle marmoree nell’arte di Michelangelo mi pare evidente. I vari modi di fare i capelli sono concettualmente simili tanto in pittura come nella scultura, così come le pesanti nuvole su cui poggiano i corpi nudi del Giudizio universale sono equivalenti a quel che Michelangelo lascia del blocco di marmo da cui ha cavato i corpi dei “prigioni”.
Parallelo al non finito marmoreo considero le teste in secondo piano, appena accennate, delle lunette e delle velette, alcuni angeli apteri della scena Creazione ed altre figure del Giudizio. Anche se in pittura questa maniera di abbozzare le figure è adottata chiaramente in funzione spaziale, non escludo che anche nella scultura Michelangelo volesse dare a quelle parti solo abbozzate, e tuttavia complete, una funzione di suggerimento di forma perduta nello spazio.
Non vorrei azzardare troppo nel dire che la dibattuta questione del non finito potrebbe trovare proprio nella rilettura degli affreschi una nuova chiave di interpretazione.
La pittura di Michelangelo nasce dunque da un calibratissimo progetto studiato in ogni sua parte, in ogni dettaglio, sino alla scelta delle varie qualità e lavorazione degli intonaci in funzione della resa cromatica e dell&rsquo.phpetto superficiale: liscio, smaltato o leggermente ruvido.
Anche il ductus delle pennellate, a cui precedentemente abbiamo accennato, presenta una ampia gamma di varianti tese a raggiungere i previsti effetti spaziali e volumetrici della composizione.
E’ dunque la ragione pura, unita ad un eccezionale senso d’arte, che caratterizza l’opera di Michelangelo. Egli infatti trasferisce nella pittura la sua sensibilità volumetrica tridimensionale di scultore e la razionalità di architetto, e sarebbe un errore cercare in lui quel tanto di istintivo e di giocoso che possiamo trovare ad esempio in Raffaello o in Tiziano, per fare soltanto due nomi di artisti a lui contemporanei, i quali nella pittura trasferiscono quella forma e quella carica coloristica, affascinante ed accattivante, propria di chi nasce pittore e che fa pittura nel momento stesso che tocca il pennello.
Vedere la mano dello scultore nell’opera pittorica di Michelangelo, oggi che lo abbiamo riscoperto forte colorista, parrebbe una insopportabile banalità, ma la riproposta nasce non già dal vecchio luogo comune conseguente alla artificiosa monocromia della volta e del Giudizio finale, bensì dalla rilettura della recuperata cromia originale, la qual cosa rende diverse le ragioni che portano ad una conclusione uguale a quella formulata nel passato.
Partiamo dalla spazialità virtuale delle sue composizioni.Lo spazio immaginato da Michelangelo ha un respiro architettonico tanto nella scansione della finta architettura policentrica della volta quanto nella spazialità del Giudizio finale.Michelangelo abbandona l’idea di una mera decorazione e ricorre ad una finta architettura immaginata come una grande aula a cielo aperto, al cui interno siedono Profeti e Sibille e nella cui volta aerea, ritmata da sottili archetti, appaiono le teofanie, ovvero le manifestazioni sensibili della divinità che qui si riferiscono ai fatti dell’antico testamento. Le sottili lingue di cielo che si vedono in corrispondenza delle testate della volta suggeriscono questo concetto.
L’opera michelangiolesca non vuole essere la “decorazione” della superficie della volta. Al contrario: con la falsa architettura, essa vuole inserirsi nella vera architettura della Cappella per modificarla senza violentarla.
Il Giudizio finale, che fu dipinto circa venticinque anni dopo la volta, è immaginato come una scena vista nel vuoto lasciato dallo sfondamento della parete dell’altare; lo dimostra la piccola figura al margine destro della scena che si appoggia con le mani alla reale cornice marmorea della parete della Cappella.
La scena si svolge in uno spazio realmente aperto verso l’esterno dove la collocazione dei gruppi di figure obbedisce alle regole prospettiche dello spazio in fuga.
Ogni figura risponde alla duplice esigenza primaria della composizione : illusione spaziale e illusione tridimensionale. Solo a questo punto entra in gioco il colore.
Michelangelo tiene conto degli effetti ottici legati tanto alla collocazione delle singole figure nello spazio in relazione alla maggiore o minore distanza ipotetica dell’immagine dall’occhio di chi guarda, quanto al volume di ciascuna figura.